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LA STAMPA, 2017

“Una piattaforma veloce come la Ferrari”

di Beniamino Pagliaro, 28 marzo, 2017

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Quando Federico Marchetti parla della Ferrari che ha in mente non pensa al nuovo modello prodotto a Maranello. L’amministratore delegato di Yoox-Net-a-Porter, leader globale dell’ecommerce di lusso nato in Italia, sta pensando alla piattaforma tecnologica che deve permettere alla creatura che ha fondato nel 1999 di continuare a crescere, portare gli acquisti a casa dei cliente nel giorno dell’ordine. Marchetti non teme la competizione di Amazon, che, assicura, «aiuta a far crescere l’ecommerce». ​

Nel 2015 Yoox ha scelto l’integrazione con Net-a-Porter. Cos’è cambiato? A che punto è il piano industriale?

«È cambiato tanto: stiamo costruendo una nuova azienda, non stiamo soltanto mettendo a posto alcune cose. I nostri negozi online, Net-a-Porter, Mr Porter, Yoox e The Outnet, hanno una totale continuità, ma dietro le quinte stiamo creando una nuova azienda. Su logistica e tecnologia sarà come passare da guidare la stessa macchina per 15 anni e ritrovarsi nel 2018 con una Ferrari nuova di zecca. La piattaforma ci consentirà di localizzare molto più facilmente, dare più strumenti alle persone, focalizzarci sui dati, garantire la consegna nello stesso giorno dell’ordine a Milano e Dubai. Tutto per dare al cliente l’esperienza di lusso online più esclusiva che ci sia sulla rete».

Nel 2018 quando “la Ferrari” sarà pronta cosa cambierà per i clienti?

«Servizio e assortimento, che è una delle cose più importanti. La selezione è sempre fondamentale, se non c’è selezione non c’è più esclusività. Se non c’è esclusività non c’è prestigio, se non c’è prestigio non c’è lusso. Se non c’è lusso diventi un mass marketplace».

L’integrazione è stata davvero come ve l’aspettavate?

«Abbiamo trovato zero sorprese, ma lo sapevamo, perché tra noi e Net-a-Porter era stato come guardarsi allo specchio per quindici anni e poi diventare lo specchio. Per esempio loro erano organizzati a livello logistico in tre aree, mentre Yoox era organizzato con un magazzino centrale per tutti. Così loro facevano vedere al cliente degli assortimenti ridotti. Ma ora lo stiamo ribaltando: il cliente può accedere da ovunque a ogni prodotto. Il modello è sofisticatissimo, con un piano di riassortimento notturno: c’è un magazzino centrale con tanti hub locali. Nei centri locali ci sarà sempre il prodotto per la consegna entro il giorno dell’ordine».

L’ordine in poche ore è una scommessa costosa.

«Abbiamo un grande vantaggio che è il volume dell’acquisto medio: quando hai un ticket di 334 euro a livello di gruppo, e il 50% in più sulla parte di prodotti delle nuove collezioni, ti puoi permettere un livello di servizio che è adatto al lusso. Tutto quello che facciamo, il servizio, il packaging, è coerente. Se sei un generalista è difficile riuscire a garantire questo lusso all’interno dei tuoi processi. Noi facciamo solo lusso».

Cosa pensa del ruolo di Amazon in Italia?

«Avendo cominciato in tempi non sospetti, quando di lusso online non c’era nemmeno una scarpa, penso che tutte le volte che entra un player importante e sofisticato come Amazon in Italia per noi si aprono delle nuove finestre. La gente si abitua, inizia comprando un libro e può finire nel lusso».

Parliamo di numeri. La crescita che stima per quest’anno è simile all’anno scorso e quindi supererete i due miliardi di ricavi?

«Abbiamo fatto un piano a cinque anni, 2016-2020, prevedendo una crescita annua del 17-20%. Per i primi due anni siamo in mezzo all’integrazione, e vogliamo crescere sulla parte bassa, intorno al 17%. Negli anni successivi possiamo crescere tranquillamente nella parte alta. Quando la piattaforma sarà completa potremo spingere l’acceleratore e i clienti di Mr Porter, per esempio, vedranno tre volte l’assortimento che vedono ora. Abbiamo un grosso piano di espansione nel Medio Oriente, dove non c’è concorrenza e abbiamo una joint venture con l’imprenditore più formidabile della regione. Ma per fare questo dobbiamo aver completato l’integrazione».

Come si spiega l’andamento del titolo? Lo tiene d’occhio?

«Non tutti i giorni ma lo tengo d’occhio. C’è chi dice che lo guarda una volta all’anno, ma non ci credo. La spiegazione è semplicissima: stiamo mettendo insieme le fondamenta solidissime di un piano di lungo termine, oltre i cinque anni. In questo momento il mercato premia il breve termine. Ma io faccio l’imprenditore e non guardo al breve, sto costruendo qualcosa che spero durerà per i prossimi cinquant’anni. Questa è la dicotomia con il mercato finanziario che è un po’ teso e guarda al breve. Guarderò l’azione con grandissimo interesse già dal 2018».

Come è iniziata la storia di Yoox? C’è stato un giorno in cui ha pensato: “Devo fare questo”?

«Volevo fare l’imprenditore e dalla maturità ai 29 anni ho lucidamente provato a imparare a fare l’imprenditore. A 29 anni mi sono detto: “Scegli ora, perché poi la tua propensione al rischio diminuirà”. A tavolino mi sono messo a pensare a cosa fare e ho semplicemente unito i puntini: da un lato la mia passione per il commercio, il cliente, da bambino mi piaceva vendere giornalini. E poi l’Italia: qual è il vantaggio competitivo di essere uno dei pochi a tornare in Italia? La moda è un grande asset di questo Paese. In quel momento Internet e la moda erano all’opposto, ma a un certo punto avrebbero trovato una loro convergenza».

In quegli anni è servita più la competenza o la testardaggine?

«La seconda: non fermarsi mai, essere consci del progetto di lungo termine. Sapere che se ci sono delle curve nel breve ma non succede niente e trasferire questa convinzione e sicurezza al team per evitare che ci sia panico».

Yoox Net-a-Porter è oggi uno dei pochi campioni digitali nazionali, una fu-startup che ce l’ha fatta. Come siete riusciti a sopravvivere?

«Ci sono mille risposte ma le condenso in due: il progetto era nato dal giorno zero per essere globale. Non ho mai guardato soltanto all’Italia, perché sapevo che così non avrebbe mai potuto essere un business sostenibile nel lungo periodo. In tre mesi abbiamo aperto Yoox in italiano e in inglese, in tutta Europa, e infatti i primi ordini sono arrivati dall’Olanda. Uno dei grossi limiti delle startup italiane è che pensano solo all’Italia, non hanno orizzonti più ampi e per definizione si sgonfiano. La seconda è una risposta classica ma da me molto sentita: la squadra. Penso di aver raccolto persone formidabili che hanno capito che ogni anno il lavoro era diverso e quindi si reinventavano. Molti di quelli che c’erano all’inizio sono ancora con noi».

I vostri piani dicono dove sarà l’azienda tra cinque o dieci anni. Ma secondo lei dove sarà l’Italia nel 2027? Staremo ancora discutendo di legge elettorale?

«Una delle cose che più ferisce è la reputazione dell’Italia all’estero: non ci prendono mica sul serio. Sono tornato in Italia perché penso che i nostri talenti sono enormi, hanno una creatività e un quid particolare. Ma io ho scelto l’Italia, ho portato qui la mia famiglia. Ho quotato l’azienda in Italia nonostante probabilmente al Nasdaq avremmo avuto dei multipli maggiori essendo un’azienda tecnologica. Ho fatto una fusione con un’azienda inglese mantenendo la sede e la quotazione in Italia. Se dicessi che non credo nell’Italia sarei incoerente. Penso che ce la possiamo fare, penso di sì. Ma lo spiraglio diventa sempre più piccolo».

Pubblicato su La Stampa.

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